Distruggere o valorizzare? È questo il problema.

Granchio blu e pesce leone, quando la minaccia dell’invasone si trasforma in motore per lo sviluppo.

Finalmente si parla di granchio blu. Scrivo “finalmente” perché noi di Future Food Institute, portandolo come case study nelle aule del nostro Paideia Campus a Pollica (e non solo), parliamo della specie ben prima che invadesse non soltanto l’Adriatico e il Tirreno, ma anche le testate dei giornali. Innanzitutto, una precisazione: questo non è e non sarà l’ennesimo articolo sui possibili usi – gastronomici e non – del granchio blu; né una disamina del settore ittico e delle specie aliene dell’ecosistema marino.

Per noi di Future Food Institute il granchio blu è però una opportunità; un’occasione per discutere di uno dei temi che ci sta più a cuore: quello delle risorse dormienti e dei processi di sviluppo ecologico integrale che queste innescano qualora risvegliate con un meccanismo di co-creazione. Di una minaccia che non dev’essere distrutta, ma trasformata in una opportunità attraverso la convergenza e l’allineamento di attori diversi (e soprattutto dell’intera comunità).

Come ho dichiarato, parliamo da anni del fenomeno; è quindi necessaria una seconda precisazione: non siamo dei veggenti. L’invasione del granchio blu è stato definita come un evento inaspettato, quanto più perché di rapida diffusione. Da dove è nata quindi questa nostra “anticipata” intuizione? 

Ancora una volta, innanzitutto, dalla consapevolezza sui danni del cambiamento climatico. Purtroppo, si prevedeva già da anni che il riscaldamento globale avrebbe provocato una sempre più frequente proliferazione e invasione di specie tropicali nei nostri mari. Dunque, era solo una questione di tempo. Secondo, nel corso della nostra attività di ricerca, dall’incontro di un fenomeno di invasione molto simile: quello del pesce leone, segnalato per la prima volta nel Sud della Florida nel 1985 (in seguito all’uragano Andrew), e poi diffusosi massivamente nelle regioni dei Caraibi. 

Sonia Massari, Direttrice dell’Academy di Future Food Institute e ricercatrice presso di Dipartimento di Scienze agrarie, alimentari, agro-ambientali dell’Università di Pisa, e Gianni Lorenzoni, Professore Emerito dell’Università di Bologna, hanno studiato a lungo questo caso iconico, impiegato fra quelli dei corsi del Paideia Campus. Il lion fish è un predatore dalle pinne tossiche che ha rischiato di distruggere un intero ecosistema marino, sopprimendo le fonti di approvvigionamento e di reddito economico delle comunità locali. Cosa accadde in quell’occasione? La prima reazione – scrivono nel loro studio pubblicato su «Il capitale culturale. Studies on the Value of Cultural Heritage», The outlines of a micro-founded food ecosystem: unexpected events, dormant resources and triggering actors. Co-Design and tools for innovation: the case study of Lion Fish – fu quella di «tentare di sterminare la specie». E non dovremmo stupircene: perché malauguratamente la storia dell’umanità è contrassegnata da tanti momenti in cui la diversità, non compresa e percepita come una minaccia, è stata eliminata. Per questa prima opzione c’era però un rovescio della medaglia: lo sterminio avrebbe portato alla distruzione dell’ecosistema marino complementare; e, come fu subito scoperto da un gruppo di ricercatori che attestarono l’assenza di tossicità delle pinne del pesce leone a due ore dal contatto con l’aria, lo spreco di un ottimo alimento. 

La seconda reazione – scrivono Massari e Lorenzoni – fu quella di prendere in «considerazione un’iniziativa di “raccolta”, in cui l’invasore poteva diventare un pasto all’interno di un ecosistema marino integrato, ponendo una sfida economica e sociale». Insomma, l’alternativa all’eradicazione della nuova specie fu la ricerca di un controllo equilibrato, la trasformazione di una «minaccia» in «opportunità».

Torniamo al granchio blu: una specie che resiste dai 3 ai 35 gradi, si adatta alle acque salmastre e pressocché a ogni tipologia di salinità dell’acqua, tollerandone quantità inferiori al tre per mille, si riproduce velocemente (una femmina può deporre circa 2 milioni di uova), ed è dotato di chele particolarmente adatte alla cattura di diverse prede.

L’allarme è emerso lo scorso giugno, quando il crostaceo è proliferato nelle acque del Mar Adriatico, rappresentando una seria minaccia per alcune specie locali: pesci (nello specifico, gli avannotti, quelli appena nati), altri crostacei, e, soprattutto, vongole – di cui non solo i granchi blu, ma anche noi italiani siamo golosi, come dimostra l’onnipresenza degli spaghetti così conditi sulle nostre tavole. La siccità dell’estate scorsa e la conseguente diffusione di alghe, che impedivano una adatta circolazione di ossigeno, aveva già messo a dura prova la produzione di vongole; ma quest’anno – come forse qualcuno avrà potuto intuire dall’aumento dei prezzi – la situazione si è fortemente aggravata a causa del predatore blu.

Anche se non scontata come credevamo, la reazione è stata immediata. A giugno, l’Emilia-Romagna ha avviato le pratiche per ottenere un’autorizzazione al prelievo per autodifesa, tramite apposite modifiche alle concessioni demaniali. In altre parole, più semplici, la regione – soprattutto dopo l’alluvione di maggio, probabile causa dell’invasione del predatore – ha proposto di tutelare il settore della pesca locale consentendo agli acquacoltori il prelievo e l’utilizzo commerciale e alimentare del granchio blu, tramite un programma intitolato BlueFood nell’ambito dell’Euro-Med. Una proposta sensata, considerato che, sulle coste del Maryland e della Virginia, la specie rappresenta una prelibatezza gastronomica (tra l’altro molto costosa: raggiunge 100 dollari al chilo) e persino un presidio da tutelare, quando di lunghezza minore di 14 centimetri.

La situazione è però precipitata ad agosto quando, insieme alle percentuali di crescita della specie (fino al 2000%), sono stati stimati i danni del settore, superiori al 50% per quanto riguarda vongole, cozze e ostriche. Enorme è stata poi la perdita economica dovuta al danneggiamento delle reti e delle attrezzature da pesca, causata dalle chele del granchio. Insomma, una minaccia per circa 3000 imprese familiari e per la sopravvivenza di numerosissime specie alimentari, con un buco – secondo le stime di Fedagripesca-Confcooperative – di 100 milioni di euro.

Pochi giorni fa, la notizia: il Governo, con il Decreto Omnibus, ha stanziato 2,9 milioni di euro per contrastare la diffusione del granchio blu, ponendosi a favore delle imprese e dei consorzi di acquacoltura che provvederanno alla cattura e allo smaltimento della specie.

Insomma, si è deciso di sterminare.

Il pesce leone è stato decisamente più fortunato. Perché, tramite un’attività di coordinamento e coinvolgimento di un’ampia rete di attori – anzi, dell’intera società civile – e mediante una serie di azioni di progettazione innovativa, il pesce leone si è svelato una «risorsa dormiente»: un’«opportunità», celata dietro una «minaccia», capace di apportare benefici straordinari all’ecosistema che invadeva. 

Com’è stato possibile? Cos’è accaduto concretamente?

Come è riportato nello studio di Massari e Lorenzoni, nel 2015, due professori di design e tre studenti universitari di Bogotà sono stati invitati dal Biocomercio Colombia Coralina e APCColombia sull’isola di Sant Andres, per organizzare dei workshop con questo preciso obiettivo: promuovere la caccia e il consumo del pesce leone. A tal fine, utilizzando interamente le potenzialità dell’animale, sono state pianificate quattro attività principali: una gara di caccia al pesce leone; l’ideazione e applicazione di arpioni e reti per la pesca; un laboratorio comunitario di gioielli artigianali; un laboratorio di food design e un concorso di food stylist. 

Lo scopo finale: innescare un processo di coinvolgimento attivo di persone con background esperienziali e professionali differenti che esplorassero i loro bisogni e co-creassero soluzioni innovative e convergenti per quella che, inizialmente, era stata percepita come una minaccia; e soprattutto costruire scenari di sviluppo futuri sulla base delle innovazioni proposte.

Un esempio tra tutti: nella gara di caccia, la strategia di premiare la cattura del pesce più grande e di quello più piccolo ha consentito ai pescatori di sperimentare e familiarizzare e co-progettare le loro attrezzature di pesca. Un altro? L’aumento, soprattutto nell’ambito del turismo gastronomico, della domanda di piatti a base di pesce leone; o il contrasto dei fenomeni di spopolamento della zona costiera; o le nuove entrate economiche non soltanto per i pescatori, ma anche le famiglie e le donne che, mettendo a frutto le loro competenze, hanno facilitato l’innovazione nel settore dell’artigianato. Insomma, idee trasformate in execution per rendere possibili risultati non estemporanei.

Non lo nego: i tentativi di valorizzazione intrapresi a favore del granchio blu sono stati assolutamente lodevoli. Si pensi ai corsi formativi della Commissione Generale per la Pesca nel Mediterraneo della FAO per i pescatori impegnati nella cattura di specie non autoctone, compresa il granchio blu. O all’ideazione, a opera della Coldiretti e di numerosi chef italiani, di piatti di qualità a base dell’ingrediente-minaccia. 

Forse, però, non è e non è stato abbastanza. Perché la verità è che affinché un cambiamento sia non solo possibile, ma realizzabile, l’azione deve essere sempre multisettoriale e multi-attoriale. Ad essere coinvolta, in un processo di co-creazione, dev’essere l’intera comunità.

Il caso del pesce leone mi sembra quindi iconico: perché mostra quanto solo con un metodo di lavoro e con pratiche di progettazione fondate non su un intervento frammentato (solo gastronomico, ad esempio) ma su quello di un intero ecosistema in azione sia possibile trasformare una «minaccia» in una «risorsa». Perché la rigenerazione, per essere davvero tale, deve essere sempre integrale. E affinché sia integrale è necessario che tutti si attivino per farne parte. 

La scoperta di un circuito virtuoso deve avere seguito in un progetto di ecosistema integrato che coinvolga istituzioni, pescatori, intermediari e utilizzatori, tutti in grado di allineare azioni frammentate e scomposte. I “colli di bottiglia” sono in agguato e determinano discontinuità e scarsa efficacia. Leggiamo che 12 tonnellate di granchio blu sono partite per gli USA: siamo in grado di garantire che altre spedizioni possano replicarsi in futuro sistematicamente? E a quali condizioni? Le filiere devono essere possibilmente stabili e organizzate. 

Tutte le idee che leggiamo sui giornali in questi giorni possono essere buone idee: ma è l’esecuzione – quella sistemica e a lungo termine – che fa la differenza.