Giornate della Terra, giornate per l’Ambiente, venerdì per il Futuro, sono tutte occasioni che dovrebbero rimarcare il nostro senso di gratitudine, che dovrebbero riunire e accelerare il tanto necessario, quanto urgente, cambio di paradigma.
Ma, come pensiamo di poter parlare di giustizia ambientale senza affrontare anche quella razziale?
Dopo cinque anni dal lancio degli obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, una maratona interminabile di attività di sensibilizzazione mondiale sui temi della sostenibilità, New Green Deals, cambiamenti tangibili che cominciavano a percepirsi sia in ambito industriale che nel mondo della finanza con l’incremento di investimenti ESG [Environmental, Social, Governance] finalizzati a sostenere in attività “responsabili”, e ancora, milioni di giovani – senza barriere culturali – che hanno riempito le piazze di ogni angolo del pianeta per gridare a gran voce ”SAVE THE PLANET”; arriva il 2020 e mette in mostra tutta la brutalità e i retaggi di un sistema che presenta falle da ogni lato, quella ambientale, quella economica e quella più drammaticamente umana.
Così, navigando tra il senso di disagio e la complessità oggettiva che questo momento storico ci offre, unisco i puntini del mio ecosistema, tra food, sostenibilità e comunità, cercando di estrapolare quel “goodaftercovid19” che, da ottimista un po esausta, mi ostino a cercare.
Mi confronto appassionatamente con le colleghe della Food for Climate League, basate a Chicago, Seattle, Washington D.C., San Francisco, dove la tensione che noi percepiamo solo attraverso i media è invece fatta di sirene, elicotteri, coprifuoco e strade incendiate. Leggo l’articolo del New York Times che pone l’attenzione sul diffondersi di nuovi focolai di razzismo che stanno attanagliando l’America, evidenziando come sia impossibile vivere in modo sostenibile senza affrontare le disuguaglianze.
Poi penso all’Italia e chiamo il mio amico e socio Chris Richmond, Founder di Mygrants, per ascoltare anche il suo punto di vista in merito. Chris è nato in Costa d’Avorio, cresciuto tra Europa e Stati Uniti d’America, esperto di diritto internazionale e diplomazia tanto da dedicare la sua vita a studiare e comprendere le complessità dei flussi migratori, ma soprattutto a proporre soluzioni adeguate e risolutive.
“Non vi è parte della nostra società che non sia stata toccata e plasmata dal nostro background migratorio: religione, politica, business arte, istruzione, sport, intrattenimento. È tempo di prendere atto che il dinamismo apportato dagli immigrati nelle comunità ospitanti è la chiave di volta che ha reso gli Stati Uniti d’America il principale motore di innovazione e prosperità della storia.
Porre le basi per un futuro sostenibile significa dare a quel 3% della popolazione mondiale underserved (% di migranti nel mondo) “the credit” e l’attenzione che merita, se non altro per “ringraziarlo” per quel 10% del PIL globale che è in grado di produrre.” – sottolinea Chris
Nel corso della storia, in particolar modo l’Africa ha subito un impatto sproporzionato dal cambiamento climatico; e dalle difficoltà di accesso, dal depauperamento e dall’inquinamento delle risorse ambientali, e tanto altro. Oggi però la lotta contro questa oppressione che sembra quasi istituzionalizzata sta diventando più importante che mai.
Fronteggiare la crisi climatica, risolvere la crisi sociale: un percorso che, per me, parte dal cibo
Inquiniamo mangiando e mangiamo ciò che inquiniamo. Ormai è evidente: le nostre abitudini di consumo sono tra i principali fattori di accelerazione del degrado dell’ecosistema e i cambiamenti climatici, ed il settore agroalimentare ne è vittima e carnefice. Acquisire una nuova consapevolezza sull’impatto delle nostre scelte alimentari così come sulle insostenibili modalità produttive sono state occasioni per troppo tempo rimandate ad un futuro mai prossimo. Ora si tratta di un imperativo necessario per la prosecuzione di una specie a noi molto vicina: la nostra. Si tratta di un processo sicuramente accelerato dalla recente pandemia che, nonostante la drammaticità della crisi economica globale, ha bruscamente riorientato il mondo guidandolo verso un ritorno all’essenzialità
Ma il cibo è anche cultura, salute, esperienza, inclusione e socialità. Tantissimi sono gli esempi che dal mondo fanno ri-emergere il legame tra cibo e comunità, storie di reciprocità e collaborazione, aiuti e coesione, che riportano un po’ di luce a fenomeni ancora drammaticamente attuali, come lo stretto legame esistente tra insicurezza alimentare, povertà educative e conflitti.
Generazione “Climate Shapers”. E’ tutta una questione di mindset.
“Be diverse”. “Don’t be a me too”. Un mantra per me, perché la “diversità” è ricchezza e una opportunità di arricchimento per l’intera società.
Con Food Innovation Program e le Global Mission (assieme a Matteo Vignoli), ed in con i Climate Shapers Boot Camp (assieme a Claudia Laricchia e in partnership con la FAO), mi sono imbattuta in missioni che mi hanno offerto costanti insegnamenti e spunti di riflessione. Interdipendenze, quella tra il cibo e la crisi climatica, che devono passare attraverso una partecipazione inclusiva ed estesa, in cui abitudini alimentari sostenibili siano accessibili a tutti. Così, formare cittadini di una società globale, dove l’eterogeneità è un valore aggiunto, uno stimolo per favorire la contaminazione a prescindere dall’appartenenza religiosa, dalla provenienza, dal genere e dal colore della pelle, favorendo esperienze inter-generazionali, ci ha portato a comprendere la complessità di un sistema dove l’inclusione non è un fattore scontato e allenare il “mindset” al cambiamento, e al pensiero sistemico diventa necessario più che mai.
Imparare subito e imparare tutti.
E’ possibile cominciare a immaginare il buono, mentre le ferite sono ancora aperte? Come e perché il mondo sarà diverso e forse migliore dopo il Covid-19?
Queste sono le domande che assieme a Carlo Giardinetti ci siamo posti all’inizio di marzo, dando vita a “Good After Covid19” un percorso di ascolto e studio che sta coinvolgendo attivisti, studiosi, educatori, teologi, economisti, diplomatici, filosofi, agricoltori, imprenditori, giovani, innovatori, scienziati che sottolineano quanto sia urgente ripensare e ricostruire un nuovo modello di produzione, di consumo, di sviluppo, ripartendo dal basso, dai valori essenziali di umanità. Il nuovo mondo, quello del Post-Covid chiede ascolto e compassione, reciprocità e collaborazione. Si parla di coopetition, si parla di una nuova leadership collaborativa che trascendere concezioni egoiche ed interessi personali, di una nuova economia, che diventa quella del dare e non dell’accaparramento, si intrecciano le fila di nuove collaborazioni, come quelle tra scienza e spiritualità. L’individuo torna a riacquistare un valore centrale, da responsabilizzare ma anche da tutelare e rispettare, all’interno di una visione olistica ed inclusiva in cui tutto è strettamente interconnesso. Così dietro un bisogno sempre più impellente di giustizia sociale, ambientale e alimentare, forme di razzismo sono sempre più chiaramente condannate, l’impoverimento dell’ecosistema sempre più contrastato dal bisogno di unità e comunità. Il valore della ancestrale “Golden Rule”, della regola della reciprocità, fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a te e non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te, viene riscoperta e ri-valorizzata, bussola non soltanto per gestire al meglio possibili conflitti, ma addirittura per prevenirli a monte, da “conflict” a “nonflict”, per usare le parole di Stephen Hecht.
Ed io non posso far altro che constatare che la fragilità, quella a livello sociale, che si riverbera in un distorto rapporto con l’intero ecosistema.
Cambia la forma ma non la sostanza: il razzismo è per il tessuto sociale ciò che il continuo depauperamento delle risorse è per l’ambiente. Esternazioni diverse di una stessa violenza.
Non si può parlare di sostenibilità senza eguaglianza sociale.