La Giornata della Terra non è (più) una celebrazione. È una resa dei conti.

Siamo ufficialmente entrati in quella che il World Economic Forum definisce “zona di rischio crescente” per la salute del pianeta.
Sei dei nove limiti planetari sono già stati superati: cambiamento climatico, perdita di biodiversità, uso del suolo, alterazione dei cicli biochimici, cambiamenti nei flussi d’acqua dolce e contaminazione da sostanze artificiali.
Il cambiamento non è più auspicabile, né necessario: è chirurgicamente urgente.

Eppure, mentre i nostri sistemi naturali collassano uno dopo l’altro, l’attenzione globale è rapita da un viaggio di undici minuti verso le stelle, da una corsa al consumo che ha perso il senso del limite, e da una tecnologia che evolve più velocemente della nostra capacità di comprenderla – o di governarla.

Viviamo in un paradosso pericoloso: abbiamo algoritmi che anticipano i nostri desideri e satelliti che ci mostrano ogni angolo della Terra, ma sembriamo incapaci di ascoltare il grido della Terra stessa. Un grido che non è più sommesso. È assordante.

Il cambiamento climatico non è più solo una questione scientifica o politica. È diventato una questione profondamente umana.
A dieci anni dalla presentazione degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, dell’Accordo di Parigi e dell’enciclica Laudato Si’, ci troviamo a un bivio cruciale: accelerare l’azione climatica o rischiare di perdere definitivamente l’opportunità di rigenerare il nostro pianeta.

Papa Francesco, con una chiarezza disarmante, ci ha già indicato la rotta: “Non possiamo vivere sani in un mondo malato.”
L’ecologia integrale, al centro della sua visione, non è uno slogan ambientalista. È una proposta di giustizia sistemica: ambientale, sociale, economica, spirituale.
Un invito a ricostruire il nostro patto con la Terra e con l’altro. A riconoscere che ogni gesto – personale o collettivo – ha un impatto sistemico.

Paul Polman, nel descrivere la crisi attuale, afferma con lucidità: “Quello che stiamo vivendo non è solo un crollo ecologico. È un crollo dell’immaginazione, della volontà politica, del buon senso.”
La sfida, dunque, non è tanto tecnologica, quanto culturale e morale. Le soluzioni esistono, ma manca il coraggio di attuarle. Non servono nuove scoperte. Serve scegliere. Qui e ora.

Nel suo libro Values for a Life Economy, Kim Polman ci offre una chiave di lettura potente e accessibile: “Tratta gli altri, e il pianeta, come vorresti essere trattato tu.” La Golden Rule.
Questa è l’etica della reciprocità applicata alla sostenibilità. È la base di un’economia della vita, che metta al centro le persone, il rispetto, la cura. Un’economia che non sfrutta, ma rigenera.

In questo contesto, torna centrale un concetto cardine della Laudato Si’ e dei dialoghi raccolti in Terrafutura: la “Humana Communitas”.
Papa Francesco ci ricorda che non siamo individui isolati, ma parte di una rete vitale di relazioni. Siamo natura, siamo tempo, siamo memoria.

L’ecologia integrale è una rivoluzione spirituale prima ancora che politica. È un nuovo umanesimo, una visione che rifiuta la frammentazione e abbraccia la complessità.
Come sottolinea l’enciclica, “non ci sono due crisi separate, una ambientale e un’altra sociale, bensì una sola e complessa crisi socio-ambientale”.

A Pollica, con il Paideia Campus, questa visione ha preso forma concreta: un laboratorio vivente, una comunità educante, un ecosistema rigenerativo.
Non una risposta retorica, ma una prassi quotidiana. Non una testimonianza isolata, ma un modello scalabile.

Oggi più che mai, ciò che serve non sono nuove leggi, né tecnologie più potenti. Serve una nuova appartenenza. Un’identità che non si costruisce contro gli altri, ma insieme agli altri.
Una cittadinanza planetaria. Un’etica della coesistenza.

La Giornata della Terra, oggi, non può essere solo celebrazione. È una resa dei conti.
È il momento in cui ogni scelta – anche la più piccola – può diventare seme.
Seme di consapevolezza. Seme di responsabilità. Seme di futuro.

La Terra non ha bisogno di eroi solitari.
Ha bisogno di alleanze autentiche e comunità coraggiose.

E allora, la domanda – forse la più radicale di tutte – resta questa:
Che mondo scegliamo di abitare, ora che non possiamo più dire di non sapere?