Urgenza di agire e ritardi da recuperare.
Antonio Guterres, Segretario Generale delle Nazioni Unite, lo ripete in ogni occasione: è cominciata la “decade of action”, abbiamo cioè solo 10 anni per trasformare la scienza e l’ispirazione sul raggiungimento dei 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030, in azione e soprattutto in una vera e propria trasformazione. E lo conferma anche l’Intergovernmental Panel on Climate Change, che stabilisce in 10 anni l’arco temporale massimo per mantenere l’aumento della temperatura del Pianeta al di sotto del grado e mezzo, stabilendo che gli effetti devastanti di un aumento al di sopra di quella soglia, sarebbero incalcolabili.
10 anni, dunque, è questo il tempo che ci rimane per la transizione ecologica, per sconfiggere la povertà, per vivere in un mondo a fame zero, con livelli di salute e benessere equi e soddisfacenti per tutti, per migliorare i livelli di istruzione e renderla accessibile a tutti, per raggiungere finalmente la parità di genere, per avere accesso ad un’acqua sana e salubre, per avere accesso all’energia pulita, per avere un lavoro dignitoso ed una stabile crescita economica, per avere imprese prospere, infrastrutture e innovazione, per ridurre le disuguaglianze, per costruire città e comunità sostenibili, per avere livelli di consumo e produzione responsabili, per agire per il clima, per rendere sana la vita sotto l’acqua e quella sulla terra, per raggiungere pace, giustizia e avere istituzioni solide ed infine per rafforzare le partnership per raggiungere questi ambiziosi obiettivi.
10 anni per cambiare davvero il mondo.
Eppure la notizia è che da settembre 2020 siamo già 5 anni in ritardo su tutta la linea.
Un articolo di Nature spiega nel dettaglio perché.
Il dato è allarmante, perché significa che quello che stiamo facendo e la velocità con cui lo stiamo facendo non sono abbastanza. Che se continuiamo così, non raggiungeremo gli obiettivi che ci siamo prefissati e questo avrà delle conseguenze devastanti per il nostro futuro.
Uno dei maggiori ostacoli, spiega Nature, è l’accesso a dati tempestivi e di alta qualità. Un accesso che necessita di un nuovo mindset e di nuove collaborazioni e investimenti nei sistemi statistici nazionali. Il COVID-19 ha messo in luce gravi debolezze proprio dei sistemi di dati in tutto il mondo, anche nelle nazioni più ricche. La carenza di test e di apparecchiature mediche è stata aggravata da dati contrastanti e incompleti. E in paesi come gli Stati Uniti, l’India e altri, i problemi di dati sono diventati munizioni politiche, causando incertezza e sfiducia nell’opinione pubblica. Finora, la mancanza di dati tempestivi e di qualità è emersa come il più grande ostacolo al raggiungimento degli SDGs.
Eppure i dati ci sono.
Il mondo dispone già di gran parte dei dati di cui ha bisogno.
Per altro, i dati raccolti dagli uffici nazionali di statistica (ONS), compresi i dati del censimento e del CRVS (Civil Registration and Vital Statistic), possono ora essere integrati da dati provenienti dalle osservazioni della Terra, dai telefoni cellulari, dai social media e da altre fonti. Gli strumenti emergenti nel campo dell’analisi dei grandi dati, come l’intelligenza artificiale e il miglioramento della visualizzazione dei dati, offrono intuizioni precedentemente sfuggenti. Ma questa esplosione di dati ha superato di gran lunga le capacità di gestirli, e il potenziamento di queste capacità è la chiave per raggiungere gli SDG.
Nature riporta che, secondo un rapporto del 2019 di The Partnership in Statistics for Development in the 21st Century (PARIS21), il mondo investe solo la metà dei 1,3 miliardi di dollari all’anno necessari per ottenere un monitoraggio completo degli SDG.
E’ quindi una questione di dati, ma anche di investimenti sui dati.
Se n’è parlato anche al World Data Forum da cui è emersa l’urgenza di migliorare gli strumenti e i metodi di dati tradizionali, sfruttando al contempo le fonti e gli strumenti di dati emergenti, attingendo alle competenze in materia di dati e trovando nuovi modi di collaborare tra i vari settori.
Sistemi di raccolta e monitoraggio dei dati hanno un enorme impatto sugli SDGs. Si pensi all’equità di genere. I dati aiuterebbero l’accesso all’istruzione, l’accesso ai servizi sociali e la prevenzione del matrimonio infantile. Il tradizionale censimento non è più sufficiente e oggi abbiamo accesso a sufficienti tecnologie per integrare questo sistema, con sistemi più avanzati. Si pensi ai dati geospaziali, che possono più facilmente supportare a contare le persone che hanno bisogno di aiuto in caso di disastri naturali e a stimare con maggiore precisione la diffusione delle malattie, la povertà e l’esposizione all’inquinamento. Si pensi, ancora, alla citizen science. Su questo Jillian Campbell, responsabile del monitoraggio, della revisione e del reporting alla Convenzione delle Nazioni Unite sulla Diversità Biologica, e membro esperto di SDSN TReNDS, sta lavorando per rafforzare l’uso della citizen science nel monitoraggio ufficiale SDG. Insieme a IBM, al Wilson Center ed altri hanno compilato e armonizzato i dati raccolti dai gruppi di citizen science di tutto il mondo per formulare nuovi standard di reporting sui rifiuti marini per rafforzare la raccolta dei dati. IBM ha contribuito con strumenti di machine learning e ha costruito un modello per prevedere la futura densità della plastica costiera.
Un altro esempio riportato da Nature è Los Angeles, che affronta l’inquinamento atmosferico attraverso i dati provenienti dai sensori della regione che misurano i livelli di ozono e di particolato, ma anche i dati provenienti da inalatori per l’asma abilitati al GPS e quelli provenienti dai satelliti e dei sensori, che grazie all’intelligenza artificiale saranno proiettati per prevedere i prossimi livelli di inquinamento.
Altro grande alleato è costituito dalle partnership tra pubblico e privato. Sul punto, Google si è impegnata a donare 200.000 dollari all’anno di cloud computing fino al 2030 per supportare Freshwater Ecosystems Explorer, strumento che la stessa Jillian Campbell ha contribuito a sviluppare all’UNEP e che integra dati di telerilevamento e livelli di qualità dell’acqua, ecosistemi e dati sulla popolazione per aiutare a sostenere l’obiettivo 6.6 di SDG – arrestare il degrado degli ecosistemi d’acqua dolce.
L’ostacolo, in questo caso, è la negoziazione per ottenere e scambiare dati, legata alla protezione della privacy (si pensi ai dati sulla produzione e sull’accesso alle banche, che riguardano gli SDG 8 – lavoro dignitoso e crescita economica) e 9 – industria, innovazione e infrastrutture).
Volontà politica e investimenti dovrebbero quindi convergere nella decade of action che è già resa molto difficoltosa dai ritardi accumulati.
Fallire quest’obiettivo non è un’opzione. Non abbiamo altra scelta che accelerare ulteriormente, a partire dai dati e dall’azione collettiva urgente non per garantirci un domani migliore, ma per garantirci un domani.
Co-athored with Claudia Laricchia