E’ passato quasi un mese dalla COP 28 a Dubai ed ancora rifletto sulle scelte ancora troppo poco radicali, sulle parole spese e gli investimenti promessi; ma provo anche a mettere insieme i pezzi buoni, i dati, gli incontri, e gli impegni presi,per cominciare l’anno nella giusta direzione e soprattutto con azioni concrete da mettere in capo per non rischiare di ritrovarci il prossimo anno in Azerbaijan senza avere compiuto concreti passi avanti.
Per la prima volta è menzionata in modo esplicito la “transizione” dai combustibili fossili, e questo è un passo che sicuramente potrebbe segnare la fine di un’era. Tuttavia, nonostante le alte aspettative di più di cento Paesi, non c’è una linea rivoluzionaria per quanto riguarda una vera e propria eliminazione. È dunque cruciale che ogni Paese si impegni concretamente e senza indugi in questa transizione, riconoscendo che il tempo a nostra disposizione è limitato e che ogni azione, o mancata azione, ha un impatto significativo sul futuro del nostro pianeta. La speranza è che la coscienza e la volontà collettiva prevalgano rispecchiando l’urgenza e la gravità della situazione attuale.
La COP dei record (con oltre 100.000 presenza, 70.000 delegati, 2.456 lobbisti, migliaia di organizzazioni coinvolte e una infinità di eventi che hanno dato nuova vita al sito di Expo Dubai 2020 — una magica bolla che lontana dai grattacieli scintillanti della Downtown) ha saputo comunicare in ogni forma — dalle linee guida sostenibili per gli operatori della ristorazione, alle installazioni sull’agricoltura rigenerativa, gli orti e le vertical farm, fino alla mobilità — la voglia di primeggiare e guidare il cambiamento per far fronte alla vera transizione “green”. La comunicazione va sostenuta con azioni autentiche e coerenti. Voglio focalizzarmi sul buono che c’è. Dobbiamo riconoscere alcuni progressi significativi compiuti da questo summit, soprattutto relativi all’importanza data finalmente al settore agri-food e alla salute, al cibo e a tutte le soluzioni basate sulla gestione e l’uso sostenibile della natura, capaci davvero di prendersi cura della nostra Terra. Non possiamo infatti ignorare tutto ciò che è accaduto al di fuori delle aule dei negoziati: perché lì io, insieme a migliaia di persone, ho percepito l’accelerazione verso il cambiamento. Stiamo forse entrando nell’era della “Rigenerazione”? Magari!
Intanto la parola “Rigenerazione” comincia a essere presente in ogni contesto e in numerose conversazioni: dalla finanza alla salute, dall’economia all’agricoltura. Ed è presente come la intendiamo noi a “RegenerAction”: una rigenerazione ecologica integrale per la prosperità, la fertilità e la longevità dell’uomo e del pianeta.
È esattamente in questa direzione in cui si è mosso il Future Economy Forum, protagonista all’interno del “Food System Pavilion” assieme and EIT Food, Food Tank e tante altre organizzazioni, con un ricchissimo palinsesto di incontri, laboratori, round table e gruppi di lavoro impegnati ad ampio raggio sul tema della rigenerazione e l’esigenza di partire da un valore essenziale: quello delle relazioni umane, che sono le uniche a poter creare azioni concrete.
Concretezza dove Truth (verità) e Trust (fiducia) diventano elementi essenziali. La “verità” va cercata incessantemente e alimentata con dati, fatti e tanta scienza; mentre la “fiducia” è l’anima delle relazioni potenti, che si costruisce coi fatti, quelli che ci permettono di dare un senso a tutte le parole spese. Ecco, in questo momento mi sento molto fiduciosa che si stia imboccando la direzione giusta, anche solo osservando ciò che sta accadendo riguardo l’avanzamento di progetti concreti, l’indirizzo di grandi investimenti e la diffusione di modelli rigenerativi sempre più su larga scala.
Secondo la FAIRR Initiative della Jeremy Coller Foundation, su un campione di 79 aziende con un valore di 3.000 miliardi di dollari, il 36% ha già stabilito obiettivi quantificati per l’agricoltura rigenerativa: questo non può che indicare non solo una crescente consapevolezza e impegno verso pratiche più sostenibile, ma anche una vera e propria volontà di invertire la rotta. La sfida però rimane quella di misurare l’impatto di queste e altre pratiche: perché i numeri sono importantissimi per fare in modo che altri intraprendano la stessa strada.
Ma, d’altronde, è la COP stessa ad averci dimostrato che è questa la direzione, con l’Action Agenda on Regenerative Landscape lanciata l’1 dicembre. Un’iniziativa che si propone di raggiungere, entro il 2030, 160 milioni di ettari gestiti secondo le pratiche di agricoltura rigenerativa, con un investimento di circa 2,2 miliardi di dollari e il coinvolgimento di 3,6 milioni di agricoltori in tutto il mondo.
Sono invece meno fiduciosa riguardo alla nostra Italia, che non ha brillato come avremmo tutti sperato. Nonostante un exploit iniziale che ci ha lasciato a bocca aperta, la sua posizione del tutto marginale nei negoziati e il rapporto annuale di Germanwatch uscito in questi giorni, che riporta una sua retrocessione al 44° posto in termini di performance climatica, non può che deluderci. Si fa sempre più urgente una drastica inversione di rotta per un Paese con risorse straordinarie che potrebbero davvero fare la differenza per la creazione di una leadership verso una transizione ecologica integrale.
E Leadership forse è la parola su cui ho più riflettuto in questi giorni di COP: «a volte basta una persona per creare un movimento globale», ma per lead the change (guidare il cambiamento) ci vuole anche un’azione congiunta.
Ci vuole una leadership “alta”, come quella dimostrata dalla Ministra del Climate Change e della Food Security UAE Mariam Almheiri che si è fatta portavoce di cause concrete, ma anche prima testimonial di un cambiamento culturale di portata epocale, dimostrando che è tempo di valorizzare il straordinario capitale creativo con cui noi donne – mamme, manager, agricoltrici, scienziate, economiste, educatrici e chi più ne ha ne metta – trasformiamo i problemi in soluzioni.
E ci vuole anche una leadership collettiva, come quella dimostrata dalle migliaia di persone che brulicavano tra i padiglioni, in questi giorni, creando progetti e sviluppando idee. Tra queste, numerosissime comunità indigene da cui si dovrebbe imparare molto, ma soprattutto l’amore necessario per proteggere la nostra terra.
Guardando al futuro, credo che tanti semi piantati a Dubai germoglieranno alla COP29 o forse, ancor di più alla COP30 in Brasile, quando dal cuore dell’Amazzonia sarebbe bello non lanciare più obiettivi futuri, ma cominciare a proclamare risultati raggiunti.
Dubai in questi giorni ha offerto uno spaccato di ciò che il cambiamento potrebbe essere, ma ancora non è. È tempo di guardare avanti con la consapevolezza e la determinazione di costruire un futuro non solo migliore, ma (ormai è chiaro a tutti) possibile.
Se il nostro obiettivo è agire concretamente e produrre risultati tangibili per il benessere del nostro pianeta, la domanda fondamentale da porci deve evolvere. Non dovremmo limitarci a chiederci “cosa sto facendo per creare un cambiamento”, ma piuttosto interrogarci su “di cosa mi sto prendendo cura”, “cosa sto coltivando”. La risposta del mio maestro Edmondo, agricoltore rigenerativo a Petrosa, in Cilento, ci indica la via: “il suolo”: la terra. Prenderci cura della terra e delle risorse essenziali è il punto di partenza per creare un ecosistema vitale e sostenibile, da cui dipende a catena ogni forma di rigenerazione e prosperità, e quindi la vita.
È tempo di parlare di una “Life Economy” (economia della vita).