Persino il lessico italiano, così eterogeneo e ricco, necessita talvolta di prendere in prestito da lingue straniere alcuni lemmi che perderebbero parte della loro iconicità se tradotti. Uno tra questi è senz’altro empowerment (letteralmente il «mettere in grado di»), comparso negli anni ‘50 in alcuni studi di politologia statunitense. Il termine indica quell’insieme di azioni e interventi volto a rafforzare il potere di scelta degli individui, ad aumentarne le possibilità e le responsabilità, migliorandone le conoscenze e le competenze. Non stupisce affatto che esso sia quindi spesso associato, quasi per analogia, alle donne: una tra le categorie che, storicamente, è stata più privata di diritti sociali e civili. Primo tra tutti, il lavoro, indiscutibile tramite di libertà.
Nonostante i risultati lievemente incoraggianti registrati dall’ultimo rapporto di UN Women, i dati riguardanti l’occupazione femminile sono ancora al di fuori del limite della normalità, anche nei principali settori d’impiego. Difatti, secondo un recente rapporto della FAO, The Status of Women in Agrifood Systems, che analizza la condizione femminile lungo tutta la filiera del sistema – dalla produzione al consumo –, il settore agroalimentare rappresenta a livello mondiale una delle principali fonti d’impiego delle donne (36%), con un numero percentuale molto ravvicinato a quello degli uomini (38%). Ciononostante, lo stigma della disuguaglianza di genere si estende anche in questo campo: le donne hanno generalmente ruoli marginali, salari inferiori con condizioni lavorative peggiori, impieghi irregolari, a tempo parziale, poco qualificati, e ad alta intensità di lavoro. Minore è la sicurezza sul controllo e la proprietà della terra, e sull’accesso alla formazione e al credito. Per ogni dollaro corrisposto a un uomo con un’occupazione salariale stabile nel settore, 82 centesimi è il guadagno di una donna.
Omettendo la severa valutazione etica della questione (che dovrebbe essere per tutti immediata), tale disuguaglianza crea a livello di produttività un divario di genere del 24% in aziende agricole di pari dimensioni.
Un quadro, dunque, davvero desolante. Ancor di più considerando i numerosi Paesi dove i sistemi agroalimentari rappresentano una fonte di sussistenza molto più importante per il genere femminile, piuttosto che per quello maschile. Nell’Africa Sub-Sahariana, il 66% della popolazione femminile è occupata nel settore. Istruzione inadeguata, accesso limitato alle infrastrutture, elevati carichi di lavoro non retribuiti limitano fortemente le possibilità di lavoro extra-agricolo delle donne: non sorprende, dunque, che circa la metà della forza lavorativa del settore sia femminile in diversi Paesi del Sud-Est asiatico, come Cambogia, Laos o Vietnam.
E in Italia?
I dati del 7° Censimento generale dell’Agricoltura pubblicato dall’Istat registrano un calo, rispetto agli anni precedenti, della presenza femminile occupata in agricoltura: il 30% del totale. Si è però rafforzata la partecipazione delle donne nel ruolo manageriale: il 31,5% dei capi di aziende agricole è femminile; e la percentuale più alta si registra nel Mezzogiorno, con una notevole presenza di donne imprenditrici agricole in Molise (40%). Tuttavia, sebbene il censimento confermi che, rispetto a altri settori economici, l’agricoltura in Italia sia caratterizzata da una minore disparità di genere, il divario da colmare è ancora molto ampio.
Anche solo con questa breve panoramica, risulta evidente che a livello globale nel settore agroalimentare le donne hanno un peso significativo; e che quindi rappresentano delle risorse di fondamentale importanza, sempre più consapevoli del loro valore. Perché, nonostante i dati ci mostrino una situazione inficiata ancora dal divario di genere – soprattutto se osservata in prospettiva globale –, sono sempre più numerosi gli esempi di donne che, fondendo scienza, saperi, creatività e innovazione, compiono azioni di grande impatto nel settore agroalimentare, contribuendo alla formazione di un mercato sempre più competitivo. La presenza delle donne in agricoltura – così come in qualsiasi tipo di professione – dev’essere considerata aprioristicamente rispetto a qualsiasi valutazione etica: il diritto – che è sempre libertà – è e deve essere dato per certo. Il supporto al settore, dunque, non deve essere considerato solo come un contributo positivo alla causa della parità di genere, ma piuttosto come un tramite di arricchimento, anche in termini valoriali, di un mercato in progressiva crescita.
Infatti, promuovere l’empowerment femminile apporterebbe benefici diffusi a livello ambientale, economico, politico e culturale. E lo dichiara nero su bianco la FAO: la parità di genere nel settore agroalimentare non solo vale 1000 miliari di dollari per l’intera economia globale, ma può salvare 45 milioni di persone colpite dall’insicurezza alimentare – che, come dimostra anche l’ultimo rapporto dell’IPCC, sono in graduale e spaventoso aumento, e in maggioranza donne (il divario ha raggiunto il 4,3%, nel 2021).
Nel rapporto della FAO, è posto in rilievo un dato estremamente significativo sugli enormi vantaggi generati da progetti che promuovono l’emancipazione femminile nel settore, maggiori di quelli delle iniziative che la includono in maniera generalizzata. Perché più della metà dei finanziamenti bilaterali per l’agricoltura e lo sviluppo rurale già integra la dimensione di genere, ma solo il 6% la considera fondamentale. Se la metà dei piccoli produttori potesse beneficiare di interventi di sviluppo incentrati sull’empowerment delle donne, si verificherebbe un aumento di reddito per circa 58 milioni di persone. E – attenzione – di «resilienza» di altri 235 milioni di persone. Le conseguenze? Efficienza e sostenibilità (non solo ambientale) dei sistemi agroalimentari, e benessere diffuso.
Il programma EWA – Empowering Women in Agrifood si inserisce esattamente in tale progettualità. Si tratta di un’iniziativa di EIT Food, in collaborazione con Future Food Institute e Dock3, promossa in undici paesi (Estonia, Grecia, Italia, Polonia, Portogallo, Serbia, Slovenia, Spagna, Turchia, Romania e Ucraina). Il suo obiettivo? Far emergere lo straordinario potenziale dell’imprenditoria femminile, risolvendo alcune tra le più importanti sfide del settore agroalimentare: superare il divario di genere ancora esistente, promuovere ulteriormente la presenza femminile in posizioni dirigenziali, e aumentare il numero delle start-up guidate da donne. Per sei mesi dieci donne alla guida di una società già avviata o con un’idea da realizzare seguiranno un corso di formazione, tenuto dal Future Food Institute e da Dock3, e saranno affiancate da mentori che le accompagneranno lungo il percorso di sviluppo imprenditoriale. Le partecipanti otterranno anche accesso alla EWA Community e al network di EIT FoodHIVE. Saranno solo due le vincitrici di un premio in denaro; ma – di certo – saranno dieci le donne che potranno beneficiare di un programma che valorizza ormai da anni l’enorme contributo offerto dalla presenza femminile a un settore essenziale e strategico. Le candidature sono aperte fino al 12 giugno tramite questo link.
Tornando alle premesse e citando nuovamente il rapporto della FAO, «empowerment is the key»: e lo è persino – come dimostrano i dati – per la salute dell’uomo e del pianeta. Perché, esattamente come accade con la coltivazione di un suolo, la rigenerazione della nostra Terra – oggi più che mai necessaria, come ci urla ogni ecosistema, sia esso ambientale o umano – non può realizzarsi in un ambiente degradato. E l’assenza di inclusione, parità, uguaglianza è sempre degrado. Tutelare, valorizzare e dare spazio alle donne in un settore, come quello agroalimentare, che nutre letteralmente il nostro pianeta è un aspetto che non si può più posticipare.
La posta in gioco è la più alta possibile: il futuro – che è sempre in ballo quando si parla di libertà.