La tappa cinese della nostra Food Innovation Global Mission è stata pazzesca. Letteralmente. Non riesco a pensare ad una parola migliore per descrivere il nostro viaggio nel futuro. Niente di meno: andare in Cina, oggi, significa farsi una passeggiata nel nuovo che avanza, con tutte le sue contraddizioni, i suoi splendori e le sue miserie.
Il chiaro-scuro più esemplificativo del paese è Shanghai, una città incredibile, grande due volte la Valle d’Aosta, 37 milioni di abitanti in un unico centro abitato, un vero frullatore urbano che assembla strade caotiche dominate da taxi vecchi e puzzolenti e tassisti astiosi ad una metropolitana ultra tecnologica, impeccabilmente pulita, strade che a passeggiarvi di notte, anche da sola, danno un senso di sicurezza da fare invidia alle città pù vivibili d’Europa; assembla Pudong, dove il gotha dell’architettura mondiale sta dipingendo uno skyline vetro-acciaio sempre più avvenieristico che lo rendono un museo dell’urbanistica di fine secolo, ai quartieri più fatiscenti delle periferie; assembla market da odissea nello spazio, con robot a servirti al ristorante, ai wet market semi-nascosti nei meandri della città, dove puoi trovare qualsiasi cibo si possa immaginare (più tutti quelli che invece non diresti mai); assembla, infine, i ristoranti più estremi e ricercati ai carretti delle strade che arrostiscono cibo su un fuoco improvvisato in qualunque momento della giornata.
Shanghai è Asia allo stato puro, ma le pennellate d’Occidente che racchiude nella sua storia si vedono eccome. Dai viaggi di Marco Polo alla Via della Seta fino alle missioni di Matteo Ricci, un gesuita italiano mandato in Cina, che tradusse molte opere occidentali in cinese e viceversa, creando il primo vero ponte culturale tra l’Italia, e quindi l’Europa, e l’allora impero dei mandarini. Come non menzionare, poi, la petite France della Concession che Parigi ha mantenuto fino al 1943 e che oggi è un’autentica fetta di Europa nel cuore del dragone rampante. La Republique, si sa, non rinuncia mai al sua identità, in una sola parola alla sua “francesità”, che a Shanghai si esprime nei prodotti d’importazione, in certi luoghi parisien o anche nel semplice fatto che, senza sapere una parola di cinese, si potrebbe passare un’intera giornata a mangiare croissant e baguettes, nella French Concession, senza mai consultare google translator.
Come un’enorme città dei balocchi, Shanghai stupisce e delude e nei bassorilievi dei suoi panorami si annidano problemi sociali rilevanti: una diseguaglianza immensa tra ricchi e poveri, ad esempio, e un’incomunicabilità di fondo tra chi vive nel futurismo luccicante dei bei quartieri centrali e chi abita invece i condomini senza tempo delle periferie, dove abitano i cinesi che lavorano senza sosta e senza connessione alcuna col resto del mondo. Ed il food “waste”? In una città dove tutto è consumo e ancora non si riesce a concepire un’idea di sviluppo sostenibile, rispettoso dell’ambiente ma anche di un certo modello etico di consumo quotidiano, che da noi, fortunatamente, si sta imponendo giorno per giorno. Last but not least: l’assenza di una cultura gastronomica “tollerante” e veg-friendly: l’opulenza della carne è qualcosa che ancora fa status e se, ospiti di qualcuno, ci si azzarda a chiedere un piatto vegetariano, si può essere considerati persone davvero maleducate.
Chi considera il mangiar bene e il mangiar sano un valore e capita a Shanghai non è tuttavia senza speranza: gli expat cinesi stanno infatti figliando startup di tech e bio farms a ritmi esponenziali. Gli expat cinesi sono ragazzi cresciuti altrove, per lo più negli Stati Uniti, che hanno deciso di tornare in Cina e fare qualcosa di buono per il loro paese d’origine. Ed è paradossale, ma in questo processo di “rientro dei cervelli” spesso i ragazzi che tornano a casa sono visti come estranei, un po’ per il loro accento imperfetto, un po’ per il colore blu dei loro passaporti, e anzichè suscitare orgoglio e speranza – come avverrebbe da noi se qualche governo assennato si decidesse a riattrarre le migliaia di talenti fuggiti dall’Italia – suscitano sospetto e diffidenza. Questi “expat” sono giovani che dalla California, da Boston, da Chicago tornano in Cina per nutrire le nuove generazioni con cibi di qualità che prestino attenzione alla sicurezza alimentare, valorizzando il ruolo degli agricoltori insieme alla sostenibilità e alla storia del cibo, il tutto attraverso le mille food-startup che stanno generando un vero impatto su un settore poco più che neonato: farm bio-tecnologiche dove la qualità del prodotto è un dogma indiscutibile – mai assaggiate fragole così saporite! – orti sociali nelle scuole e programmi di educazione alimentare per salvare milioni di bambini dall’obesità dilagante.Perchè “è vero che non hanno Google e le domande se le fanno”, come canta Cremonini, e la risposta, forse, può venire anche da una realtà come WeChat, un dettaglio tutt’altro che insignificante di questa Cina dirompente che esplode e si espande, mentre noi occidentali anneghiamo nella nostalgia anzichè competere e sfidare il paese che più di tutti definirà il modello di vita dei prossimi decenni.
WeChat è una piattaforma strepitosa che conta già 800 milioni di utenti e che unisce le funzioni di Facebook e Whatsapp a Paypal: sei a ballare alla discoteca M2 e ti si scarica il cellulare? Con WeChat puoi comprare da una macchinetta un powerback usa e getta, ma puoi anche comprare una spremuta d’arancia fresca preparata da un robot in metropolitana o ordinare frutta e verdura biologica tramite il tuo farmer di fiducia e riceverla entro tre ore o prenotare un taxi. Il sistema è incredibile e offre una quantità smisurata di opportunità, ma implica anche che per chi non se ne avvale c’è un intero mondo che viene eclissato: o sei “in” o sei decisamente e letteralmente “out.
Toccare con mano quello di cui si è sempre e soltanto letto e parlato è stato incredibile, perchè ci ha dato conferma che la frontiera delle opportunità si sta spostando sempre più a oriente, dove una cultura di mercato genuina ancora non esiste, ma il terreno fertile per un cambiamento c’è. E’ paradossale che Xi Jinping si presenti come il nuovo leader della globalizzazione, opposto a un’America divenuta protezionista, ma ci rivela anche la cifra della nostra epoca: l’incertezza degli eventi è un’ulteriore sfida che si aggiunge a quelle poste dal bisogno di elevare il cibo a valore umano e lingua franca dell’emergente società globale. La Cina, ora ne siamo certi, può essere il campo da gioco in cui affrontare queste sfide!